20.000 leghe sotto i 2 mari


PASSEGGIATA SUL FONDO
(20000 leghe sotto i mari)

Arrivammo in una cabina che serviva da arsenale e da magazzino del
Nautilus. Una dozzina di scafandri attendevano i cacciatori,
appesi a una paratia. Ned Land, vedendoli, mostrò un'evidente
ripugnanza a indossarli.
- Tenete presente, caro amico, che i boschi dell'isola di Crespo
sono foreste sottomarine - gli feci osservare.
- Peccato - commentò il canadese con disappunto, vedendo svanire
il suo sogno di carne fresca. - Ma voi, professore, vi ficcherete
dentro a quella roba?
- E' necessario.
- Padrone di fare come volete - replicò il fiociniere, scrollando
le spalle. - Ma per quanto riguarda me, a meno che non vi sia
obbligato, non entrerò mai là dentro.
- Nessuno vi obbligherà, signor Land - lo tranquillizzò il
capitano Nemo.
- E Conseil? Che cosa farà?
- Io sono sempre dove va il signore.
Due uomini dell'equipaggio ci aiutarono a indossare i pesanti
indumenti di gomma impermeabile, senza cuciture e fatti in modo da
poter sopportare pressioni considerevoli. Erano una specie di
armatura pieghevole, morbida e a un tempo resistente, costituivano
un corpo unico e terminavano con calzature appesantite da spesse
suole di piombo. Il tessuto era rinforzato da strisce di metallo
che formavano come una corazza sul torace, difendendolo dalla
pressione dell'acqua, ma lasciando libera la respirazione. Le
maniche terminavano a forma di guanti che non ostacolavano
minimamente i movimenti della mano.
Il capitano Nemo, uno dei suoi uomini, Conseil e io infilammo in
fretta lo scafandro. Non ci restava che introdurre la testa nella
sfera metallica e, prima di farlo, chiesi al capitano Nemo di
esaminare l'arma che avremmo dovuto usare. Uno degli uomini del
Nautilus mi presentò un semplice fucile il cui calcio, fatto di
metallo e vuoto all'interno, era più grande del normale e serviva
da serbatoio per l'aria compressa che penetrava nella canna
mediante una valvola manovrata da un grilletto. Un serbatoio per i
proiettili era scavato nello spessore del calcio e ne conteneva
una ventina, naturalmente elettrici, che passavano automaticamente
nella canna del fucile: non appena un colpo era stato sparato, ce
n'era subito pronto un altro. Ne rimasi ammirato.
- Quest'arma è straordinaria, comandante - dissi. Ed è anche molto
facile da maneggiare. Non vedo l'ora di provarla. Come faremo ora
a toccare il fondo marino?
- In questo momento il Nautilus è arenato a dieci metri,
professore, e non ci resta altro da fare che uscire.
- E come?
- Lo vedrete.
Il capitano Nemo introdusse la testa nella calotta sferica e io e
Conseil lo imitammo, mentre il canadese ci lanciava un ironico
"Buona caccia".
La parte superiore della tuta di gomma terminava con una specie di
collare di rame sul quale si avvitava il casco. Tre aperture,
protette da vetri robusti, permettevano di guardare in tutte le
direzioni girando la testa all'interno della calotta. Appena
avvitata la sfera, gli apparecchi di respirazione sistemati sul
dorso cominciarono a funzionare e subito mi accorsi che potevo
respirare benissimo. Con la lampada elettrica alla cintura e in
mano il fucile, ero pronto alla passeggiata, ma mi pareva
impossibile che sarei riuscito a muovermi, imprigionato com'ero in
quella guaina e inchiodato a terra dalle pesanti suole di piombo.
Ma anche questo era stato previsto: fummo sospinti in una cabina
contigua e una porta si chiuse dietro di noi, lasciandoci immersi
in un'oscurità profonda.
Dopo qualche istante mi sembrò di sentire un forte soffio e una
sensazione di freddo mi salì dai piedi verso il petto. Capii
allora che la cabina si stava riempiendo d'acqua che vi penetrava
attraverso qualche fessura o tubo. In breve l'oceano avrebbe
invaso l'intero locale. In quel momento una seconda porta si aprì
nel fianco del Nautilus, una debole luce colpì i nostri occhi. E
un attimo dopo camminavamo sul fondo del mare.
Il capitano Nemo ci precedeva e il suo compagno ci seguiva
tenendosi a qualche metro di distanza, mentre io e Conseil
avanzavamo affiancati, come se in simili circostanze fosse stata
possibile una conversazione.
Non sentivo più il peso di quanto avevo addosso, delle scarpe di
piombo, di quella grossa sfera in cui la mia testa ballonzolava
come una mandorla nel guscio. Tutto ciò che portavo, immerso
nell'acqua, perdeva una parte del suo peso uguale a quella del
liquido spostato, così che godevo di una grande libertà di
movimento. Avanzavamo su una sabbia fine e compatta, diversa da
quella delle spiagge che conserva l'impronta delle onde. Quel
tappeto soffice rifrangeva i raggi del sole con una intensità
sorprendente. Intorno un grandioso riverbero rivestiva il liquido
elemento. Potrà sembrare incredibile, ma a dieci metri di
profondità ci si vedeva come in pieno giorno.
Camminai per un quarto d'ora su quella rena disseminata di
un'impalpabile polvere di fossili. La sagoma del Nautilus, simile
a un lungo squalo, a mano a mano che proseguivamo sfumava,
svanendo al nostri occhi.
Di rassicurante non rimaneva che il suo riflettore che ci avrebbe
facilitato il ritorno a bordo, una volta arrivata la notte,
proiettando intorno i suoi raggi di eccezionale limpidezza, cosa
un po' difficile da comprendere per chi ha visto soltanto le
strisce biancastre dei riflettori sulla terra. La polvere di cui
l'aria è satura trasforma i fasci di luce in una specie di nebbia
luminosa, ma sul mare e sotto il mare, essi si diffondono con
purezza incomparabile.
Continuavamo ad avanzare e sembrava che la vasta distesa subacquea
non avesse mai fine. Con la mano spostavo l'acqua che si
richiudeva alle mie spalle, mentre le orme dei miei passi venivano
subito cancellate. Incominciai a scorgere, appena delineate,
alcune forme; riconobbi stupendi primi piani di roccia tappezzata
di zoofiti delle più belle specie e fui colpito istantaneamente da
uno straordinario effetto di luce. Erano le dieci del mattino: i
raggi solari colpivano la superficie dell'acqua con una
angolazione molto obliqua e, al contatto della luce scomposta
dalle rifrazioni, i fiori, le rocce, le piante, le conchiglie e i
polipi assumevano nel contorno tutte le sfumature dei sette colori
dell'iride. Come in un prisma. Era un godimento per gli occhi
quell'accavallarsi di colori, un vero caleidoscopio di verde,
giallo, arancio, violetto, indaco e blu. Tutta una tavolozza da
pittore, che mi trasmetteva sensazioni straordinarie che però non
potevo comunicare a nessuno, neppure a gesti, come sapevano fare
il comandante e i suoi uomini. In mancanza di meglio, parlavo da
solo, gridavo nella calotta di metallo che mi chiudeva la testa,
consumando forse in tal modo più aria di quanto non dovessi.
Ma bisognava camminare. Sopra di noi vagavano intere famiglie di
piccoli polipi che rimorchiavano i loro tentacoli, meduse
dall'ombrello opalino, contornato di azzurro, e piccoli animali
fosforescenti che avrebbero illuminato il nostro procedere.
Tutte queste meraviglie mi apparvero nello spazio di un quarto di
miglio che percorsi fermandomi ogni tanto e seguendo il capitano
Nemo che mi richiamava con la mano.
Poi il suolo cambiò: alla distesa di sabbia si sostituì un tappeto
di limo vischioso, composto di conchiglie; percorremmo una distesa
di alghe che le acque non avevano ancora strappate e che
crescevano rigogliose. Questa fitta a morbida prateria non aveva
niente da invidiare ai più bei tappeti tessuti dagli uomini: una
vegetazione che si stendeva sotto i nostri piedi e sopra le nostre
teste. Una pergola di piante marine, della grande famiglia delle
alghe, si intrecciava verso l'alto, alla superficie dell'acqua.
Fluttuavano lunghi nastri dai filamenti sottili; notai che le
piante verdi si mantenevano più vicino alla superficie del mare,
mentre quelle rosse stagnavano a media profondità e piante marine
nere o brune formavano giardini e aiuole sul fondo.
Avevamo lasciato il Nautilus da circa un'ora e mezzo. Era quasi
mezzogiorno e me ne accorsi dai raggi del sole, perpendicolari
sull'acqua, che non si rifrangevano più. La magia dei colori svanì
lentamente e con essa le sfumature di smeraldo e di zaffiro. Col
terreno che scendeva con una forte pendenza, la luce assunse una
intensità uniforme. Avevamo raggiunto i cento metri, sopportando
una pressione di dieci atmosfere. Ma lo scafandro era davvero
eccezionale: non ne risentivo per niente. Provavo soltanto un
certo formicolio alle dita che ben presto cessò. Anche la
stanchezza, del tutto naturale per quel tipo di passeggiata, non
si faceva sentire. Riuscivo a compiere ogni movimento con
sorprendente facilità.
Superata la profondità di cento metri, intravedevo ancora i raggi
del sole, ma debolmente: alla loro luminosità intensa era seguito
un crepuscolo rossastro. Tuttavia vedevamo abbastanza bene per
orientarci e non era ancora necessario usare le lampade. Il
capitano Nemo si fermò, aspettò che lo raggiungessi, poi mi indicò
alcune masse oscure che si profilavano nell'ombra, a poca distanza
da noi. Ecco la foresta di Crespo, pensai.
Non mi ingannavo.

(Jules Verne)