IL FIORE DEL DESERTO
Qui sull'arida schiena
del formidabile vulcano Vesuvio,
distruttore di genti,
che non sono rallegrate da nessun altro albero
né fiore, o profumata ginestra, spargi i tuoi rami
solitari, felice di trovarti
nei deserti.
Ti ho già visto
abbellire con i tuoi steli le campagne disabitate
che circondano Roma
che fu sovrana dei mortali nell’antichità,
e sembra che questi luoghi col loro aspetto
severo e silenzioso facciano da ricordo
e testimonianza del perduto potere a chi passa.
Ti rivedo ora su questo suolo, amante
di luoghi tristi e abbandonati da tutti e sempre
compagna di sorti sventurate.
Questi terreni, cosparsi
di ceneri non produttive, e ricoperti
di lava fattasi pietra,
che risuona sotto il passi del viandante;
dove il serpente si annida e si contorce
sotto il sole, e dove il coniglio torna
all’abituale tana tra le caverne;
furono pieni di città ricche e campi coltivati,
biondeggiarono per i campi di grano e
risuonarono per i muggiti delle mandrie;
giardini e reggie furono
un gradito rifugio
per gli ozi dei potenti; e ci furono città famose
che il vulcano superbo
con i suoi torrenti di lava distrusse, insieme ai suoi abitanti,
eruttando dalla bocca di fuoco.
Ora qui intorno
la rovina ricopre tutto, là dove tu hai radici,
o fiore gentile, e come per commiserare
i danni prodotti da altri, spandi verso il cielo
un profumo assai dolce, che allieta
il paesaggio desertico.
A questi luoghi deserti
si rechi chi è solito lodare in maniera esaltata
la condizione umana, e si renda conto
di quanto la natura si preoccupa
dell’uomo.
E in maniera opportuna
potrà anche aver cognizione
della potenza del genere umano,
che la natura, quando l’uomo meno se l’aspetta,
annulla in parte e in un solo momento
con un moto impercettibile, e può
con una scossa un po’ più netta
cancellare del tutto in un istante.
Qui rappresentate
sono le “sorti magnifiche e progressive”
delle stirpi umane.
Guarda qui e qui specchiati,
secolo stupido e arrogante,
che hai abbandonato la strada segnata
sin qui dal pensiero rinascimentale
e materialistico, e torni sui tuoi passi,
ti vanti della tua svolta all’indietro,
addirittura la chiami progresso.
Tutti gli ingegni, di cui una sorte sciagurata
ti ha fatto padre, sono intenti ad adulare
il tuo atteggiamento bamboccesco, benché
a volte, tra di loro, si facciano
beffe di te.
Io non andrò sotto terra
con tal vergogna;
ma piuttosto il disprezzo nei tuoi confronti
che ho rinchiuso nel cuore,
l’avrò mostrato il più apertamente possibile;
anche se so che la cancellazione dalla
memoria schiaccia chi troppo biasima il proprio tempo.
Di questo male, che sarà in comune
tra me e te, finora me ne rido molto.
Vai sognando la libertà, e tuttavia vuoi
che il pensiero sia di nuovo servo, quel pensiero
per cui, solo, risorgemmo dalla barbarie,
e per cui solo si può crescere in civilizzazione,
che unica tra tutte guida
il destino comune al meglio.
Perciò ti ha dato fastidio la verità
sulla sorte amara e sul mondo infelice
che la natura ci ha assegnato. Per questo motivo,
da vigliacco, hai voltato le spalle alla luce
che ci ha mostrato queste cose; e, mentre fuggi,
chiami vile chi segue quella via,
e definisci magnanimo solo chi,
astuto o stolto, illudendo gli altri o se stesso,
eleva il genere umano fin sopra le stelle.
Un uomo di condizioni modeste e salute
cagionevole, nobile ed elevato d’animo,
non definisce né reputa se stesso
ricco di beni o di vigore fisico,
e non si mette ridicolmente in mostra
tra la gente per la vita lussuosa
o per il suo bell’aspetto;
ma senza vergogna si mostra privo
di forza fisica e di beni materiali, e chiama
apertamente le cose col loro nome, e stima
le sue cose in modo aderente alla verità.
Non penso che sia un essere
magnanimo ma sciocco chi,
destinato a morire, educato attraverso le sofferenze,
afferma: “Sono nato per essere felice”
e riempie con il suo nauseante orgoglio
fogli su fogli, promettendo in terra,
a genti che un’onda di tempesta,
una pestilenza, un terremoto
possono distruggere in modo che
ne sopravviva a stento il ricordo,
un destino sublime
e straordinarie felicità,
che il cielo stesso ignora.
Uno spirito nobile è quello
che ha il coraggio di sollevare
i propri occhi mortali contro
il destino comune, e che con parole oneste
e sincere e senza nulla togliere alla verità,
e confessa il male che ci è stato assegnato,
e la nostra condizione meschina e fragile;
una natura nobile è quella che mostra sé
coraggiosa e forte nella sofferenza, e che non
aggiunge alle sue sciagure né gli odi
né le violenze tra simili, che sono ancora
più gravi del resto, dando la responsabilità
all’uomo del suo dolore, ma dà la colpa
alla natura che è davvero colpevole, e che
per gli uomini è madre per il parto e matrigna
per come ci tratta.
L’umanità definisce questa come nemica;
e pensando di essere, com’è vero,
unita e schierata contro di lei,
ritiene tutti gli uomini confederati tra loro
e tutti li stringe in un abbraccio
con vera partecipazione, offrendo
ed aspettando un valido e rapido aiuto
nelle alterne difficoltà e nelle sofferenze
della comune lotta. E crede che sia stolto
armare la propria mano per le offese dell’uomo,
e gettare un tranello e tramare un danno contro
il proprio vicino, così come sarebbe stupido,
in un campo di battaglia circondato dai nemici,
nel momento più feroce dell’assalto,
dimenticando i nemici, intraprendere
con i commilitoni duri battibecchi
e disseminare la fuga o tirare colpi di spada
tra i propri guerrieri.
Quando considerazioni di questo tipo
saranno, come lo sono state in passato,
evidenti a tutti; e quando il terrore che per primo
unì gli uomini contro la natura malvagia
in una catena di solidarietà,
quando il discorso pubblico
onesto e retto sarà
in parte recuperato dal vero sapere,
allora la giustizia e il senso di pietà avranno
un’altra radice che non l’ottusa fede,
sulle cui fondamenta la mentalità del popolo
è solita star in equlibrio come può stare
chi ha il proprio appiglio nell’errore.
Sovente siedo nottetempo in queste lande,
che, deserte, il flutto solidificatosi della lava
- e sembra muoversi ancora - ricopre di colore
marrone cupo; e sul paesaggio tristissimo,
sotto un cielo terso e pulitissimo
vedo risplendere le stelle nel cielo, alle quali
il mare, da lontano, fa da specchio,
e tutto il mondo brilla di scintille
per l’universo sereno.
E quando fisso lo sguardo a quegli astri,
che ai miei occhi paiono solo dei puntini,
e invece sono immensa, così che in realtà
terra e mare sono un punto al loro
cospetto; e per queste stelle
non solo l’uomo ma la stessa Terra,
dove l’uomo vale nulla,
è completamente ignota; e quando contemplo
quelle costellazioni di stelle
lontanissime e senza fine,
che ci sembrano come una nebbia, alle quali
non l’uomo, non la terra soltanto,
ma tutte insieme le nostre stelle,
insieme con il sole dorato,
infinite per numero e per mole, o sono ignote
o appaiono come loro sembrano a noi, e cioè
un punto di luce fioca; allora che puoi
sembrare al mio pensiero,
o stirpe umana? E ricordando
il tuo stato sulla terra, di cui è testimonianza
il suolo vulcanico che io calpesto; e d’altra parte
considerando che ti reputi padrona
e fine dell’universo; e pensando a quante volte
ti è piaciuto fantasticare su come i creatori
del mondo siano scesi su questo dimentico
granello di sabbia, che ha nome di Terra,
e su come abbiano spesso conversato
piacevolmente con i tuoi simili; e ricordando
che, raccontando nuovamente illusioni
già derise a suo tempo, il nostro secolo,
che pretende di superare le ere precedenti
in sapere e in civiltà, si burla dei saggi;
che sentimento d’animo, o umanità infelice,
che pensiero nei tuoi confronti mi prende il cuore?
Non so so prevale il riso o la pietà.
Come un piccolo frutto cadendo dall’albero,
che nell’autunno inoltrato la maturazione
fa precipitare a terra senza altra forza,
e schiaccia, annienta e cancella
in un attimo gli accoglienti nidi
di un popolo di formiche, scavati nella terra molle
con gran fatica, e le gallerie
e le riserve di cibo che con fatica indefessa
le infaticabili formiche in gara tra loro hanno
raccolto con previdenza
nella stagione estiva; così, piombando dall’alto,
dalla bocca del vulcano e dopo essere stata
scagliata in alto verso il cielo,
un turbine che copre il sole
fatto di cenere, pomice e sasso,
mescolata di ruscelli
di colate laviche,
o un’immensa piena
che scende furiosa tra l’erba,
fatta di massi liquefatti e di metalli fusi
e di terra infuocata,
sconvolse e distrusse e ricoprì
in pochi attimi
le città che il mare bagnava
sull’ultima spiaggia; così ora su quelle città
pascola una capra, e nuove città
sorgono all’esterno della colata, a cui fanno
da sgabello le città sepolte, e l’erto monte
quasi calpesta col suo piede le mura crollate.
La natura non ha per il genere umano
più stima o cura
che per le formiche: e se la strage
è più rara tra quelli che tra queste,
ciò avviene d’altra parte solo perché
le sue generazioni sono meno feconde.
Sono passati ben mille e ottocento
anni da quando scomparirono, schiacciati
dalla forza della lava, le affollate città
e il contadino al lavoro
nei vigneti, che la zolla morta ed incenerita,
nutre a fatica in questi campi,
leva tuttora lo sguardo
sospettoso al vulcano
portatore di morte, che per nulla resa più mite,
ancor si siede orrendo, ancora minaccia
una strage al contadino, ai suoi figli
e ai loro miseri averi. E spesso
il poverello sul tetto
della sua rustica casa, restando sveglio
insonne tutta la notte all’aperto,
e sobbalzando molte volte, osserva ansioso
il procedere del temuto ribollire, che cola
dall’inesausta fornace
sul crinale di roccia, a cui splende
la marina di Capri
e il porto di Napoli e il quartiere Mergellina.
E se lo vede avvicinarsi, o se sente
per caso sente gorgogliar in fermento
nel profondo del pozzo di casa, sveglia i figli
e la moglie in frettta, e subito via,
con quanto delle loro cose possono raccattare,
e, in fuga, vede da lontano la cara
e quotidiana abitazione, e il modesto campo,
che fu per lui unica difesa alla fame,
preda della colata incandescente
che giunge con mille crepitii, e inesorabile
si stende per sempre sopra quelli.
Ai raggi del sole torna
dopo un oblio secolare, l’estinta
Pompei, come uno scheletro
sepolto, che dalla terra viene all’aperto
per desiderio di ricchezza o pietà umana;
e dalla piazza deserta
dritto in mezzo alle fila
dei colonnati diroccati il pellegrino
contempla da lontano il Vesuvio
e il monte Somma, e la cresta che fuma,
che ancora minaccia la città distrutta.
E nello scenario orrorifico della notte più
oscura, per teatri abbandonati
e templi crollati e le case devastate,
dove è solito partorire il pipistrello,
come una fiaccola misteriosa
che vaghi cupa per palazzi vuoti,
corre la colata della lava assassina,
che da lontano in mezzo all’ombra
manda rossi bagliori, e si riflette all’intorno.
Così, la natura, del tutto indifferente dell’uomo
e delle ere che questo chiama antiche,
e del corso delle generazioni umane,
rimane sempre giovane e vitale, ed anzi scorre
per un cammino così lungo da parer
immobile. Nel frattempo, crollano i governi,
passano le genti e le culture: ella non se ne
accorge: e l’uomo pretende il diritto all’eternità.
E tu, docile ginestra,
che adorni con cespugli odorosi
queste campagne desertificate,
anche tu presto soccomberai alla potenza
crudele della lava in eruzione,
che ritornando ai luoghi
già colpiti, stenderà sui tuoi molli rami
il suo duro e acre lembo di rocce. E piegherai
sotto la colata mortale il tuo fusto innocente
senza opporre resistenza:
ma il tuo capo non è stato piegato
fino a quel momento, con suppliche inutili
e codarde al futuro oppressore; e il tuo capo
non si è eretto con orgoglio folle contro
le stelle, né sul deserto, dove hai avuto
il luogo di nascita e di residenza
non per scelta ma per gioco del caso;
ma più saggia, e tanto meno debole ed insensata
dell’uomo, poiché non hai mai creduto
che la tua specie fosse stata resa immortale
o dal destino o da te stessa.
(Giacomo Leopardi)